BESOZZI Tommaso Francesco
Tommaso Francesco Besozzi nacque a Vigevano il 20 gennaio 1903 da Ludovico e Maria Garberini, ebbe una sorella, Angela e due fratelli, Carlo e Martino, periti sul campo di battaglia della prima guerra mondiale. Erano due ufficiali degli Alpini, decorati poi al valor militare, a loro fu in seguito intitolata una scuola e una via.
Tommaso abitava in via Riberia n. 21 in una casa ubicata presso il Castello Sforzesco, la sua famiglia era benestante, il padre impiegato. Il cognome Besozzi appare in documenti del Settecento attribuito a un podestà del Comune.
Tommaso si iscrisse al Regio Liceo Cairoli e ottenne la maturità nell’anno scolastico 1921-22.
Riandrà col passar degli anni alla sua infanzia, che chiamerà il periodo più bello della sua vita.
Dopo la maturità si iscrisse alla Facoltà di Scienze matematiche a Bologna, si interessò anche di astronomia e fu amico del ben noto docente Bendandi, sismologo di chiara fama. Non si conosce il motivo che gli fece cambiare indirizzo di studi per iscriversi poi a Pavia, Facoltà di Lettere, ma anche qui non concluse il ciclo degli studi universitari.
Era il 1926, anno in cui cominciò a scrivere come giornalista e fece ingresso al Corriere.
Accanto a Besozzi operava una squadra di gente illustre, Emilio Radius, Dino Buzzati, Giovanni Guareschi. Non rimase a lungo e la sua fuga restò senza spiegazioni, dopo un breve periodo però fece ritorno.
La sua produzione giornalistica fu abbastanza variegata e fu soprattutto dedicata a episodi di vita vissuta, di cronache di vari avvenimenti. Per Vigevano si interessò di una famiglia, quella dei Biffignandi, che si dice, avesse reso servigi al Barbarossa e ottenuto il privilegio di cavare oro dalle sabbie del Ticino.
Nessuno capiva quali fossero le sue “simpatie politiche”, come si definivano e per i colleghi fu sempre un “mistero”.
In gioventù forse fu vicino alle nuove audaci correnti fasciste, in maturità si diceva fosse stato propenso ai socialisti. Un suo biografo s’azzardò a dire che “gli passava sotto la pelle una vena anarchica”, infatti non ebbe indulgenza verso le forze d’ordine, quando si era assicurato che avessero commesso errori.
Vedi il caso del trafugamento della salma di Mussolini da Musocco, quando si infuriò e dichiarò che s’era fatta una gran brutta figura di fronte agli inglesi.
E così nel ‘46 denunciò che la rivolta dei carcerati a San Vittore non era onorevole questione per lo Stato italiano appena uscito dal Fascismo, troppe forze d’ordine presenti, scarsa l’organizzazione. Negli anni del dopoguerra Besozzi si dovette occupare di delitti passionali, nelle sue cronache divenne investigatore e si immedesimò talmente nel suo compito di narratore da sottrarsi all’attenzione di un gran numero di lettori.
Era il caso di Rina Fort, o di Leonarda Cianciulli, la saponificatrice. Sempre sull’Europeo apparve nell’estate del ‘46 lo scritto del tutto particolare, che rivela lo stile di Besozzi scrittore. S’intitola L’asino di Nimis, e narra le vicende di un tale, che, negli ultimi mesi di guerra, era arrivato nel Cremasco dal Friuli per portare un asino a un suo amico, che non ne aveva trovato uno in tutta la Lombardia. Era una storia vera, il protagonista Giovanni Rigola, pseudonimo dello scrittore, aveva attraversato zone devastate dalla guerra, aveva incontrato tedeschi e partigiani, mentre i bombardieri passavano veloci in cielo.
Benedetti, il fondatore dell’Europeo, aveva capito che Besozzi era il solo che potesse affrontare certi “casi”, nessuno in campo giornalistico poteva essere all’altezza di compiti così delicati e difficili. Passano trent’anni di storia e tanti furono gli argomenti trattati, ma il più eclatante fu la morte del bandito Giuliano. Apparve nel ‘50 sull’Europeo un articolo che faceva sorprendere, il titolo era “Di sicuro c’è solo che è morto”. Si pubblicò una serie di fotografie, che provenivano da un rullino trovato in una tasca da un carabiniere, Giuliano era ritratto in posa nella campagna di Castelvetrano con atteggiamento da divo. Besozzi non si era lasciato convincere da quello che altri avevano scritto sul caso e volle indagare per scoprire la verità, che poi venne alla luce. Si diceva che si era dato alla fuga insieme a un gregario, poi scomparso, e che proprio mentre tentava di rifugiarsi in una casa venne freddato da una raffica di mitra sparata dai carabinieri inseguitori. Molti erano i particolari della vicenda evidenziati da Besozzi, che intanto interrogava gli abitanti di Castelvetrano e capì che la realtà era ben diversa da quella prospettata: era semplicemente “camuffata”, imprecisa.
Con tutta probabilità “qualcuno” l’aveva colpito a tradimento, poi trasferito a Castelvetrano e poi qualcun altro gli aveva sparato ancora. Si fece allusione alla mafia, colpevole della sua fine, si dubitò anche di Pisciotta.
Un anno dopo sull’Europeo si scrisse che Besozzi “ha denunciato per primo la grottesca favola del conflitto di Castelvetrano”.
Un capitolo della vita del giornalista è tutto dedicato all’Africa, la quarta sponda così detta, dove era stato inviato dall’Europeo, ma dove, in realtà, aveva chiesto lui di recarsi.
Si documentò con quello scrupolo tutto suo sulla vita dei coloni e la sua attenzione si fermò sui camionisti, quelli chiamati “gli insabbiati”, addetti al trasporto di merci. Lui, abituato a immergersi nei fatti, li aveva scoperti.
Quei camionisti erano il prototipo dei lavoratori italiani rimasti in colonia dopo l’occupazione, ormai avevano perduto il contatto con la madrepatria, scegliendo un tipo di vita zingaresca.
Un periodo fecondo per Besozzi fu quello vissuto in Francia, a Parigi era considerato famoso e aveva acquistato favore per il “caso Giuliano”. Già però due anni prima, nel ‘48, aveva avuto successo per una sua scoperta a proposito di un italiano, condannato ai lavori forzati, Gino Corni. Fu una ingiusta accusa di omicidio. Il servizio iniziò con un titolo, come al solito, eclatante “Il mancino innocente”, era palese la sua accusa contro il giudice accusatore che fu costretto a far marcia indietro, dopo le accurate indagini del giornalista italiano.
Incontrò a Parigi personaggi famosi, come l’attore Jean Gabin, che intervistò nella sua casa. Affascinato dallo scrittore di gialli, George Simenon, ebbe la fortuna d’essere ricevuto da lui e scrisse un reportage interessante sulla sua vita privata.
Ricostruire le vicende che riguardano gli ultimi anni di attività di Tommaso Besozzi non è facile, si hanno a disposizione notizie frammentarie, sfocate. Era un pellegrinaggio da una redazione all’altra e, per quegli incarichi a lui ancora affidati, scriveva senza la solita partecipazione. Ormai si sentiva solo, rifiutava rapporti con altri, anche con i suoi familiari. Era stanco, deluso, depresso; fu necessario ricorrere a un ricovero in una Casa di Cura, ma si dimostrò insofferente alle cure a lui prescritte. Chiese e ottenne di ritornare a casa.
La sua sofferenza, la sua solitudine interiore lo portarono a scegliere una via senza ritorno, a chiudere la partita con tutti. Lo fece con un mezzo piuttosto insolito, preparato da lui da tempo: uno strumento di morte, con un proiettile mise la parola fine alla attività di scrittore. Era il 18 novembre 1964. Molti gli elogi funebri stilati da colleghi altrettanto illustri, da Benedetti a Del Buono, da Biagi a Vigorelli a Francesco Nasi,
Si deve a Enrico Mannucci dello staff del Corriere, se abbiamo a disposizione una biografia ricchissima di notizie, che è anche una documentazione storica del periodo in cui Besozzi visse.
Estratto dall’articolo di Niny Beolchi Rognoni su Viglevanum – n. 13 – anno 2003